Nel panorama di Napoli, dal mare, si
distingue la lunga facciata rossa e grigia del Palazzo Reale,
ornata, al primo piano, dai grillages del giardino pensile.
Ai primi del 1600, i Viceré spagnoli di Napoli, decisero di
costruire per sé e per i viaggi del Re di Spagna una residenza
moderna, aperta in porticati e logge, ampia e ben decorata,
secondo il gusto classicistico. Ben diversa quindi, dai magici
castelli fortificati nei quali avevano vissuto i Re angioini ed
aragonesi.
Il luogo prescelto si trovava accanto a Castel Nuovo, alla fine
di via Toledo, verso il nuovo quartiere residenziale di Chiaia,
a sud-ovest della città antica.
Ancor oggi il Largo di Palazzo, piazza del Plebiscito, è uno
dei centri del potere dello Stato a Napoli. Su di esso infatti,
si affacciano le sedi del Comando Militare in Italia Meridionale
e della Prefettura.
Il palazzo fu progettato, ed in parte costruito, da Domenico
Fontana, per ordine del Viceré Fernando Ruiz de Castro, Conte
di Lemos e della Viceregina Caterina Zúnica, secondo un modello
edilizio del tardo Rinascimento. Un modello che l'architetto
aveva già sperimentato a Roma, nella sua attività per il Papa
Sisto V.
Soprattutto la facciata, in mattoni e piperno, riprende, con
accentuazione manieristica dell'estensione in larghezza, temi
costruttivi ed ornamentali della cultura romana, come colonne di
granito, iscrizioni in latino, frontoni e lesene doriche,
ioniche e corinzie.
L'interno è distribuito intorno al cortile d'onore, quadrato e
circondato da un porticato ad archi di piperno, che, nel piano
superiore, corrisponde all'ambulacro, loggia coperta su cui si
affacciano le stanze.
Già nel progetto del Fontana, ma anche come risultato dei
successivi ampliamenti, di Sanfelice, Vanvitelli, Fuga e Gaetano
Genovese, altri due cortili di pianta rettangolare comunicano
con la corte d'onore: il cortile del Belvedere e quello delle
Carrozze, creando, con gli androni allineati e la ripetizione
modulare degli elementi architettonici, suggestivi effetti di più
direzioni all'infinito.
A nord si estende il giardino creato dal botanico Denhart nel
1841, negli anni del grande restauro ottocentesco della Reggia.
Magnolie, lecci e piante rare accostano i loro verdi con gusto
pittorico, con l'inserto esotico, e più recente, di palme ad
alto fusto.
Il giardino e tutto il versante nord-orientale della Reggia con
il Regio Teatro San Carlo e la scarpata delle scuderie sono
circondati da una cancellata ottocentesca in ferro.
L'ingresso dell'antico maneggio è sormontato dalle sculture in
ferro di due "domatori di cavalli" di Clodt Von
Jurgenburg, donati al Re Ferdinando II Borbone dallo Zar di
Russia nel 1846 e inaspettato motivo di gemellaggio con San
Pietroburgo perché replica di altre due sculture collocate su
un ponte della Neva.
La spianata verso il Vesuvio è collegata agli spalti del
Maschio Angioino da un ponte ad arco di impianto vicereale,
traccia dell'antico funzionale legame tra il Palazzo e la
Fortezza, con l'arsenale delle artiglierie.
La Fabbrica di Porcellana Borbonica, nel primo periodo di
attività, si trovava in un padiglione qui accanto e tutto il
palazzo era animato da attività accessorie alla vita di corte,
come: la Reale Stamperia, la Reale Arazzeria (dopo il
trasferimento da San Carlo alle Mortelle), la seicentesca
Accademia Palatina, la Cappella Reale, gli Uffici della
Tappezzeria, i corpi di guardia militare, gli alloggi del
maggiordomo maggiore e di tutto il personale.
Per tre secoli, dal 1600 al 1946, il Palazzo Reale è stato sede
del potere monarchico a Napoli ed in Italia Meridionale,
abitato, prima da Viceré spagnoli e austriaci, poi dai Re
Borbone, infine dai Savoia.
Dal 1919 il Palazzo Reale è adibito a Museo degli Appartamenti
Storici ed a Biblioteca Nazionale, svolge, quindi, un ruolo
diverso, un ruolo culturale, nella vita della città.
Lo Scalone d'onore
L'Appartamento Storico del Palazzo Reale
conserva l'arredo e le decorazioni del piano nobile, con le
trenta sale più antiche, nelle quali si svolgevano le funzioni
istituzionali e di rappresentanza.
Vi si accede dallo scalone d'onore monumentale.L'atrio è
rivestito di marmi rosati di Mondragone, Portovenere, Vitulano e
breccia di Sicilia, alternati a bassorilievi in marmo bianco,
ornati di trofei militari ed allegorie. Sulla volta, stucchi
bianchi su fondo grigio raffigurano simboli dinastici e stemmi
di Napoli e Sicilia.
Alla decorazione lavorarono, tra il 1838 e il 1858, scultori e
stuccatori dell'Accademia di Napoli, su disegni di Gaetano
Genovese. La scala antica, di Francesco Antonio Picchiatti, fu
modificata secondo il gusto tardo neoclassico dell'architetto di
corte.
La balaustrata di marmo bianco intagliato, su cui poggiano i
lumi della Fabbrica Reale di Pietrarsa, unifica, come un lungo
nastro ornato, pareti e rampe simmetriche della scala.
Abbattuto Palazzo Vecchio, cui si addossava la scala, fu
possibile aprire la parete di fondo con arcate in ferro e vetro
che rendono l'ambiente molto ampio e luminoso.
Ai lati delle rampe, quattro sculture rappresentano le Virtù
Regie (la Clemenza, di Tito Angelini; la Prudenza, di Tommaso
Solari, con il ramo di ulivo e lo specchio; la Fortezza, con la
lancia, di Antonio Calì e la Giustizia, di Gennaro Calì, con
il fascio della magistratura romana).L'ambulacro è il lungo
corridoio di disimpegno su cui si aprono le Sale. Chiuso da
vetrate e ornato di stucchi nell'Ottocento, è anche il
principale luogo delle attività espositive temporanee sui temi
dell'architettura, delle arti figurative e della storia della
cultura, oltre che delle mostre sulla collezione del Museo.
Teatrino di Corte
La prima sala, a destra dello scalone, è il
Teatrino di Corte, l'antica "Sala Regia", usata per
ricevimenti e spettacoli con apparati effimeri. Fu allestita
come Teatrino, da Ferdinando Fuga nel 1768.
Il soffitto, originariamente affrescato da Antonio Dominici con
una "Allegoria delle nozze di Poseidone e Anfitrite";
allusivo al matrimonio di Ferdinando IV e Maria Carolina
d'Austria, occasione nella quale fu inaugurato il Teatrino, è
andato perduto a causa dei bombardamenti della seconda guerra
mondiale.
L'affresco attuale è una copia di Francesco
Galante. E' intatta invece la scansione settecentesca delle
pareti con nicchie e lesene profilate di stucco dorato, e dodici
statue in cartapesta, dello scultore Angelo Viva, che risalgono
al 1768, e raffigurano Apollo, Minerva, Mercurio e le nove muse.
Già usato per le commedie mimiche del marchese di Liveri, al
tempo di Ferdinando IV, il Teatrino ospitò rappresentazioni di
opere buffe di Paisiello, Cimarosa e Piccinni ed è ancor oggi
sede di conferenze e spettacoli.
Sala Diplomatica
Resti della decorazione manieristica a fresco
ritrovati sotto la volta incannucciata e rimossi con
procedimenti di stacco, sono ora esposti su un pannello.
Domina sul soffitto il dipinto di Francesco De Mura con
"l'Allegoria delle Virtù Di Carlo di Borbone e Maria
Amalia di Sassonia" e le "Allegorie dei
Continenti" che fu realizzato nel 1738, ai primi anni del
Regno autonomo dei Borbone, per le nozze del nuovo re.
Una illusiva riquadratura, dipinta da Vincenzo Re, incornicia
l'allegoria, creando un vertiginoso effetto di
"sfondato" che predispone alla visione barocca di De
Mura.
Al centro si distinguono il "Genio Reale" e gli stemmi
degli sposi (Borbone e Sassonia). Adagiata su nuvole, la
personificazione delle virtù con i loro simboli, mentre, in
basso, "Imeneo coronato di fiori scaccia dalla scena il
Furore e la Malignità".
Imponenti mobili neobarocchi arredano la Sala, tappezzata di
lampasso rosso della Fabbrica di San Leucio.
Alle pareti, due arazzi Gobelins della serie delle Allegorie
degli Elementi: "Il fuoco e l'aria" tessuti per
celebrare il potere di Luigi XIV di Francia e opera di Louis de
La Tour su cartoni di Charles Lebrun.
Sala IV
La seconda anticamera (Sala IV), conserva la
decorazione del soffitto dei primi decenni del Seicento con
pitture di genere storico.La bottega di Belisario Corenzio,
greco-italico di formazione manieristica, dipinse qui i
"Fasti di Alfonso il Magnanimo", fondatore del regno
aragonese di Napoli e indicato, propagandisticamente, dai
Viceré spagnoli, come antecedente della loro dominazione.
Alle pareti, la Sala conserva due dipinti di Massimo Stanzione,
seguace napoletano del naturalismo di Caravaggio:
"Lucrezia, eroina romana" e la "Vestizione di
Sant'Ignazio", complessa scena religiosa ispirata a Guido
Reni.
Sulle consoles, della fine del Settecento, gruppi di vasi ed
orologi di stile Impero, di Pierre Philippe Thomire, portati a
Napoli da Gioacchino Murat.Si tratta del doppio matrimonio delle
principesse Maria Teresa e Maria Luisa Borbone con i cugini
austriaci, celebrato nella Cappella Reale di Napoli nel 1790.
L'importanza documentaria delle due tele è soprattutto nella
riproduzione dello stato della Cappella e dello Scalone reale
alla fine del Settecento.
Nella terza anticamera, decorata e arredata nell'Ottocento, sono
esposti due dipinti del Seicento napoletano: "Loth e le
figlie" di Massimo Stanzione, e il "Bagno di
Diana" di Pacecco de Rosa.
Sulla parete centrale, l'arazzo con il "Ratto di Proserpina",
di Pietro Duranti, documenta l'attività della Reale Arazzeria
di Napoli in una fase in cui l'architetto di corte, Luigi
Vanvitelli, intervenne a coordinare la scelta degli autori del
modello preparatorio, in questo caso, il pittore Gerolamo
Starace Franchis e dello stesso arazziere, di origine romana.
Il risultato fu l'introduzione della manifattura su telai ad
alto liccio, invece che a basso liccio, e una definizione
disegnativa più coerente della composizione tardo-barocca.
Da poco restaurato, l'arazzo ha ritrovato la delicatezza delle
tonalità pastello dovute al largo uso di seta non tinta, che
distingue la fabbrica napoletana, nata già nella fase rocaille
dell'arazzo.
Sala del Trono
Giungiamo alla Sala del Trono, il luogo
dell'autorità, dove il Re riceveva.
Riconosciamo il cielo del baldacchino settecentesco di velluto
rosso con applicazioni di galloni dorati e motivi di nastri
intrecciati, tramandato dai dipinti di pittori settecenteschi
che raffigurano la cerimonia dell'abdicazione di Carlo di
Borbone, divenuto Re di Spagna nel 1759, in favore del giovane
Ferdinando IV.
Il trono di legno dorato, con i leoni di stile Impero sotto i
braccioli, è invece databile intorno al 1850.
Il trono è idealmente circondato, nel soffitto, da una schiera
di figure femminili in peplo e corona murata; sono le province
del Regno di Napoli al momento della Restaurazione nel 1818:
Molise, Abruzzo, Citra e Abruzzo Ultra, Terra di Livorno,
Principato Ultra, Capitanata, Terra di Bari, Terra d'Otranto,
Calabria e Calabria Citeriore.
Napoli e la Sicilia sono rappresentate dagli stemmi del cavallo
e della Trinacria, al centro, contornati dalle onorificenze
borboniche.
Disegnata da Antonio De Simone, la decorazione realizzata dagli
scultori Domenico Masucci e Valerio Villareale si ispira al
gusto neoclassico "imperiale" e burocratico del
periodo murattiano.
Nella Sala sono esposti ritratti di personaggi reali, dal
Seicento all'Ottocento. Di fronte al trono, Ferdinando I, di
Vincenzo Camuccini, che raffigura il Re che ha regnato più a
lungo su Napoli (dal 1759 al 1825), in atto di mostrare la
Basilica di San Francesco di Paola, costruita nel largo di
palazzo, come ex voto per il ritorno dei Borboni nel 1815.
La storica Ambasceria dei Turchi e dei Tripolini, giunti a
Napoli nel 1741, è rappresentata in due ritratti di Giuseppe
Bonito, replica di due tele di reportage inviate a Madrid, che
documentano l'interesse a Corte per l'oriente e l'esotico.
Farnese, Sassonia, Braganza, Asburgo sono rappresentati spesso
da personaggi femminili, nei ritratti esposti nella Sala.
E' presente anche Vittorio Emanuele III Savoia da bambino,
principe di Napoli, in una tela del 1874.
Sala VII
Alle spalle della Sala del Trono vi è il
cosiddetto "passetto del Generale" (ora Sala VII),
arredato con una specchiera in legno e bronzi dorati, che
provenivano dalle camere di Carolina Bonaparte nella Reggia
Napoletana.
Alle pareti, "San Sebastiano curato dalle pie donne",
di Granet, del 1815, ed un ciclo di monumentali dipinti del
napoletano Tommaso De Vivo con la storia biblica di Giuditta, in
tre episodi di gusto teatrale, datati tra il 1841 e il 1848.
Salone degli Ambasciatori
Nella tipologia del Palazzo seicentesco, alla
Sala del Trono e delle Udienze segue la Galleria, ambiente ad
angolo, di pianta rettangolare, che un tempo fungeva da
collegamento con gli appartamenti privati.
Il Salone degli Ambasciatori aveva infatti questa antica
funzione. Tappezzato, nel dopoguerra, in raso verde a fasce, è
allestito con arazzi francesi: le "Allegorie della terra e
del mare", della Manifattura Gobelins, su cartoni di
Charles Lebrun, che concludono la serie degli Elementi, della
Sala Diplomatica. Gli arazzi furono donati dal Re di Francia al
Nunzio Apostolico presso la corte di Napoli nel 1719.
Tessuti ai primi del secolo, sono una replica
di una serie del 1664, caratterizzata dal gusto del classicismo
barocco nelle parti figurate e dalla grande qualità delle
nature morte ornamentali che, lungo il bordo, richiamano il tema
iconografico.
I due arazzi tra i balconi fanno parte delle Storie di Enrico IV.
Datati 1787 e 1790, risalgono alla fase tarda della fabbrica
Gobelins, nel momento in cui anche l'arazzo si ispira al genere
storico ed imita, rinunziando del tutto agli effetti decorativi,
la grande pittura monumentale.
Alle pareti, dipinti del Seicento di cultura napoletana, in
particolare "l'Annunciazione", proveniente dal Museo
di Capodimonte, di Artemisia Gentileschi, del 1631, quando la
pittrice dimorava a Napoli.Il soffitto del Salone degli
Ambasciatori è uno dei più antichi del Palazzo. Affrescato da
Belisario Corenzio, Onofrio e Andrea de Lione ed altri aiuti,
nel III decennio del Seicento, raffigura, negli scomparti della
finta volta a botte, i "Fasti della casa di Spagna".
La composizione è concepita come lo svolgersi delle pagine di
un libro illustrato, con iscrizioni in spagnolo a commentare e
descrivere gli episodi: il giuramento di fedeltà dei siciliani
a Ferrante d'Aragona; l'incontro di Ferrante e San Francesco di
Paola; la battaglia contro i mori sulle montagne di Alpuxarras;
la partenza per le Canarie; Cristoforo Colombo che presenta ad
Alfonso di Castiglia la carta geografica del Nuovo Mondo.
Gli affreschi, da poco restaurati, erano un tempo circondati da
una cornice di grottesche, ritrovate sotto la vernice, e sono
separati da quinte con "Trofei di guerra e figure di
prigioni" simili ai frontespizi dell'illustrazione libraria
seicentesca.
L'effetto è particolarmente suggestivo, perché la fantasia
manieristica dei pittori, qui, si esprime liberamente e assume
accenti quasi caricaturali della pittura naturalistica.
Sala di Maria Cristina
La Sala detta di "Maria Cristina"
in ricordo della regina di Napoli, morta nel 1836 e beatificata
per la sua religiosità, era una camera dell'appartamento
privato dei reali, successivamente trasformato in Salone di
Rappresentanza dopo il 1837.
La cappellina annessa, ricorda questa antica funzione con cimeli
di Maria Cristina e una serie di dipinti raffiguranti:
"Storie della nascita di Cristo", di Francesco Liani,
pittore emiliano alla corte di Ferdinando IV.
La Sala espone opere di pittura sacra dal Cinquecento al
Seicento. In particolare: una copia antica da Filippo Lippi
"La Madonna con bambino e San Giovannino", di Pedro
Roviale, attivo nella Cappella della Sommaria in Castelcapuano,
e "l'Andata al Calvario", attribuita a Decio
Tramontano.
"La strage degli Innocenti" di Andrea Vaccaro,
documenta la forte assimilazione dei modelli del Seicento
classicistico, in particolare di Poussin. Le "Anime
purganti", dello stesso Vaccaro, è uno dei dipinti votivi
commissionati dal Viceré di Pegnaranda per la Chiesa di Santa
Maria del Pianto, dopo la terribile peste del 1656.
Sala XI
Nel soffitto della Sala XI, dipinto da Giovan
Battista Caracciolo, detto Battistello, nel secondo decennio del
Seicento, sono rappresentate le scene più importanti della
conquista del Regno di Napoli, da parte di Consalvo di Cordova,
il Gran Capitano, nel 1502.
Anche qui, come nel Salone degli Ambasciatori, iscrizioni in
spagnolo raccontano la guerra: il Gran Capitano si impossessa
della Calabria; assalta i francesi a Barletta; riceve le chiavi
dagli Eletti della città; entra trionfante in Napoli da Porta
Capuana.
Il grande pittore risolve in chiave
monumentale il linguaggio naturalista e, con spirito di adesione
alla storia, inserisce veri ritratti nelle scene dipinte, in
particolare il volto di Michelangelo da Caravaggio, suo maestro,
al centro dell'Ambasceria.
Negli spicchi ad angolo sono dipinti stemmi del Conte di Lemos
ed imprese vicereali.
Alle pareti, il "Ritratto di Pierluigi Farnese duca di
Castro" attribuito a Tiziano; una "Vanitas"
rappresentata come una fanciulla che si pettina, di scuola
dell'Italia Settentrionale del Cinquecento e dodici Proverbi
figurati, di Otto Venuis, della scuola di Federico Zuccari.
Sala dei Fiamminghi
La Sala dei Fiamminghi ha il soffitto
decorato, nel 1840, da Gennaro Maldarelli, con la scena storica
di "Tancredi che rimanda Costanza all'Imperatore Arrigo
VI", circondata dagli stemmi delle province meridionali,
che il gusto neogotico presenta come insegne medioevali.
E' qui raccolta una serie di ritratti del Seicento olandese,
caratterizzati dalla concentrata austerità dei volti e dei
costumi. "La canonichessa" di Nicolas Maes, allievo di
Rembrandt e "La giovane Beghina" di Ludolf De Yong,
databile dopo il 1645, sono i momenti più intensi di questa
raccolta, un tempo collocata nella Galleria Reale del Palazzo
Francavilla.
"Gli esattori delle Tasse", di Marinus Van
Roymerswaele, si presentano come un ritratto doppio di tipo
caricaturale. L'intenzione del pittore, preso dall'ideologia
calvinista, è quella di mettere a nudo l'avidità dell'esattore
dal ghigno ammiccante e le mani adunche, mentre l'amministratore
riporta le somme nei registri, in un atteggiamento di corretta
distanza dal denaro.
Al centro della Sala è collocata una graziosa uccelliera di
porcellana e bronzo dorato sostenuta da una fioriera con vedute
delle Ville Imperiali russe, prodotto nelle manifatture di
Gorbunovo, presso Mosca, e dono dello zar Nicola I a Ferdinando
II nel 1846. Sulla console con grifoni alati, databile al
periodo murattiano, si trova l'orologio musicale di Charles Clay,
Londra, dei primi del Settecento.
Studio del re
Nello Studio del re, l'arredo ci riporta nel
pieno dell'assetto Impero della Reggia, al tempo di Gioacchino
Murat, Re di Napoli dal 1808 al 1815.
Alle pareti, il damasco color tortora della fabbrica di San
Leucio fa da sfondo a mobili di grandissimo pregio: si tratta di
un secrétaire, una commòde ed un tavolo scrittoio, realizzati
a Parigi tra il 1809 e il 1811 dall'ebanista Adam Weisweiler,
che firma lo scrittoio con il proprio marchio a fuoco.
Uno stile omogeneo caratterizza, programmaticamente, le regge
napoleoniche in tutta Europa. Mobili dalle sagome rettilinee, di
lucidissima radica, in questo caso in legno di tuia, animate da
applicazioni in bronzo dorato tratte dalla decorazione vascolare
e da richiami all'antico.
Sul secrétaire, una silhouette di Minerva che allontana Amore
da una giovinetta. La si ritrova identica su un mobile di
Lemarchand, nel Museo d'arti decorative a Parigi.
Lo scrittoio è retto da sfingi alate che richiamano i repertori
decorativi dei bronzisti francesi, dopo le campagne napoleoniche
in Egitto.
Anche la commòde ha delle applicazioni figurate con temi cari
al neoclassicismo: il "Poeta a banchetto, onorato dalla
gloria" e le "Danzatrici pompeiane", identiche su
un portagioielli della regina Ortensia, ad Arenberg. Della
stessa provenienza sono l'orologio a pendolo, di Bailly e il
barometro Chevallier esposti nello studio.
Alcuni dei volumi conservati nella libreria sono di Gioacchino
Murat; appena una campionatura della Biblioteca Palatina, che è
stata inglobata nella Biblioteca Nazionale di Napoli.
I dipinti appartengono al paesaggio napoletano della scuola di
Posillipo, Gonsalvo Carelli, "Castellammare" e
"Cava"; il più tardo Sorrentino, "Veduta da
Palazzo Salerno", e al naturalismo di Nicola Palizzi, del
quale notiamo i "Tre cani da caccia" datati 1852.
Sala XIV
La Sala XIV conserva uno dei rari soffitti
del tempo di Carlo di Borbone, della metà del Settecento. Una
rete di stucchi bianchi con fondo d'oro si stende come un
merletto, in modo fitto e variato, sulla superficie a volta,
allargandosi in ramificazioni mistilinee.
Da un disegno conservato all'Archivio di Stato di Napoli, per un
pavimento della stanza del Belvedere, sappiamo che gli stucchi
si rispecchiavano in motivi simili ai pavimenti maiolicati poi
sostituiti da marmi, nell'Ottocento.
Nella Sala sono esposti dipinti del Seicento Napoletano. Di
Andrea Vaccaro, "La favola di Orfeo che incanta gli
animali", versione naturalistica di temi poussiniani e
"L'incontro di Rachele e Giacobbe", di una
sensibilità sentimentale affine a Bernardo Cavallino.
Monumento di storia e di pittura è la pala di Luca Giordano:
"San Gennaro invoca la fine della peste a Napoli". La
tela segna la transizione del Giordano dal naturalismo
caravaggesco della fase giovanile, espresso dai corpi martoriati
riversi in primo piano, alla visione luminosa del barocco, per
la conoscenza della pittura di Rubens, nella parte superiore.
Al centro della Sala, è esposto un tavolino con piano di pietre
dure su fondo di porfido, dell'Opificio delle Pietre Dure di
Firenze, donato dal Granduca Leopoldo di Toscana a Francesco I
Borbone, intorno al 1825.
Il disegno di Giovanni Battista Giorgi riproduce con virtuosa
esattezza conchiglie dai gusci maculati.
Sala XV
Come la precedente, la Sala XV conserva il
soffitto settecentesco con eleganti stucchi rococò,
intervallati da puttini che tirano l'arco ed aironi che
s'impigliano nelle ramificazioni delle cornici sagomate. Le
specchiere in legno dorato, ripropongono, in bassorilievo,
simili soggetti.
La Sala è dedicata alla pittura di paesaggio
dal Cinquecento all'Ottocento; da Paul Brill a Pieter Mulier a
Orazio Grovenbroeck.
La "Villa Ideata", del 1641, di Viviano Codazzi e
Micco Spadaro, supera l'esercizio scenografico per una veduta di
sapore naturalistico.
La Napoli di Groevenbroeck tramanda un'immagine della città,
anteriore alla ragione prospettica di Van Wittel, ancora
arcadica e verde. Volaire interpreta invece i temi pittoreschi
amati dal turismo internazionale alla fine del Settecento:
"il mare al chiaro di luna", "il fuoco
dell'eruzione" o un "falò sulla costa del Chiatamone",
mostrando la vitalità di una popolazione dal carattere giocoso.
Originale, da un inedito punto di vista, è il "Palazzo
Reale", di Dunoy, a Napoli sino al 1812.
Al centro della Sala, un tavolino donato a Ferdinando II dal
barone Manganelli nel 1830, si ispira, nella decorazione dei
marmi commessi, al genere del paesaggio, con una veduta di
Napoli dal mare e le sirene, legate al mito di Partenope, che
reggono la corona borbonica.
Sala XVI
Un tempo stanza di appartamento privato, la
Sala XVI è arredata con mobilio dell'Ottocento, che riproduce
le linee curve e la decorazione a conchiglia e foglie arricciate
del rococò.
Il soffitto, come nelle due sale precedenti, è ornato da una
finissima partitura di stucchi bianchi che, al centro della
volta dorata, disegnano una ruota a raggiera; ai lati, altri
frontoni mistilinei con ovali. Qui è esposta una bella serie di
dipinti di Luca Giordano, in parte provenienti da Capodimonte.
Intensa e raccolta, vicina agli esiti del
barocco genovese, è la "Andata al Calvario"
attribuita al Giordano.
Le battaglie dell'antichità: "Semiramide alla difesa di
Babilonia", "Orazio Coclite sul ponte Sublicio"
ed una "Battaglia presso il ponte", richiamano la
cultura di Pietro da Cortona. "Ercole e Onfale" e,
soprattutto, la "Venere allo Specchio", sono il
risultato della personale sintesi di Luca Giordano delle maniere
dei maestri veneziani, soprattutto del Tiziano.
Sala XVII
Nella Sala XVII, una tappezzeria in
broccatello giallo oro fa da sfondo ai mobili fittamente
intagliati, laccati e dorati in stile neorococò. La stanza, un
tempo salone di ricevimento, attiguo al Salone d'Ercole, è
ornata da un soffitto a stucchi di cartapesta di disegno
neoclassico, con un rosone circolare dal quale partono lance
simmetriche a palmette. Sono esposti dipinti che illustrano gli
sviluppi meridionali e romani della pittura del Seicento. Di
stretta cultura caravaggesca, anche nelle ricerche luministiche,
è il "Cristo tra i dottori" di Jacopo Galli, detto
Spadarino, attivo a Roma già nel secondo decennio del Seicento;
più legati al gusto narrativo nordico sono la
"Natività" di Stomer e "Orfeo che incanta gli
animali" attribuito a Gerhard von Hontorst, in cui, il
volto anticlassico di Orfeo, richiama la pittura borghese dei
nordici a Roma. La "Giuditta e Oloferne", del
Monrealese, è caratterizzata da un'impronta drammatica
riberiana, che il pittore siciliano apprese nel soggiorno a
Napoli nel 1630. Un raro pittore rubensiano, Jan Lys, è
presente con un "Trionfo di Davide" del 1622.
"Il ritorno del figliol prodigo", di Mattia Preti, è
la più intensa delle versioni di questo soggetto biblico che
esprime il tema morale del perdono in un poderoso e toccante
luminismo.
Sala XVIII
La Sala XVIII è priva di tappezzeria,
rimossa per i lavori successivi al terremoto del 1980. I mobili
sono di età murattiana, sedie e consoles hanno impronta
rettilinea, con ornati di alloro e api, simbolo napoleonico,
gambe a forma di faretra come richiamo al gusto archeologico.
Del Seicento emiliano, è la raccolta dei dipinti che provengono
dalla collezione Farnese, ereditata da Carlo di Borbone dalla
madre, Elisabetta Farnese, e nucleo del museo borbonico,
destinata in parte alla galleria reale.
Bartolomeo Schedoni, nella "Sacra Famiglia nella bottega di
San Giuseppe falegname", realizza un'originale sintesi di
cultura manieristica e Correggio - un Correggio visto con gli
occhi del Seicento, secondo Wittkover - con uso emotivo di zone
di colori primari ed effetti quasi di superficie metallica.
In "Elemosina di Sant'Elisabetta",
del 1613, sono introdotte figure lacere e malmesse, come
risultato tutto esteriore della conoscenza di Caravaggio.
Nel "Sogno di San Giuseppe", del Guercino, l'ardito
taglio compositivo carica l'evento di veemenza barocca e la
cultura bolognese-veneziana esprime effetti di luce intensa e
colori caldi e brillanti.
Sala delle Nature Morte
La Sala delle Nature Morte presenta,
allineati e affrontati, numerosi esempi sei e settecenteschi del
genere che, a Napoli, ebbe gran fortuna soprattutto nel
Seicento, sulla scia della tradizione fiamminga. Le
raffigurazioni di cucine e piatti imbanditi, di pittori come
Giacomo Nani, e il grottesco "Scartellato", decoravano
le sale da pranzo rustiche delle dimore di campagna; le cacce, i
fumoir maschili; i trofei di fiori, tra i quali ci avviciniamo a
quelli di Gaetano Cusati, le anticamere e sale da pranzo
rococò. Il senso della vista vuole qui esaltare ed evocare
l'odorato e il gusto.
Sala XX
La Sala XX è un vestibolo neoclassico a
esedra, con colonne e statue di stucco, disegnato dall'
architetto Genovese.
Il gusto neoclassico caratterizza le opere qui esposte: il busto
di Achille, attribuito a Thorwaldsen, copie cinquecentesche di
sculture romane, come Marc'Aurelio e l'Antinoo di Guglielmo
della Porta, infine la "Roma" di Pietro Tenerani.
Alle pareti, sono esposte incisioni di Tischbein riprese dai
vasi greci di Hamilton e tempere di Nicola Vanni, della seconda
metà del Settecento, che riproducono pitture romane dell'area
di Stabia, copiate per l'edizione delle "Antichità di
Ercolano esposte", prodotta dalla Stamperia Reale.
Al centro, un tavolino di bronzo patinato e marmi commessi,
ispirato alla forma di un tavolino marmoreo ercolanese. L'opera
è databile al 1825.
Nel vano interno è esposto un salotto napoletano di gusto
Biedermayer, databile intorno al 1820.
Sala dei Pilastri
La "Sala dei Pilastri", interamente
dedicata a Gabriele Smargiassi, è una breve galleria sul
cortile delle carrozze, scandita da lesene ioniche. Le consoles
di legno intagliato, dipinto e dorato, di artigianato napoletano
di corte, sono databili intorno al 1780. Poltroncine e divano
risalgono al periodo murattiano, i vasi ad anfora, di porcellana
di Francia, sono della prima metà dell'Ottocento.
La Sala espone opere di Gabriele Smargiassi, professore di
paesaggio all'Accademia di Napoli dal 1837 al 1882. Un lavoro
giovanile vicino al maestro Pitloo, la "Fontana di Genzano",
e quattro grandi composizioni con figure sacre in paesaggi
neoseicenteschi, acquistate da Ferdinando II; in particolare il
"San Sebastiano curato dalle pie donne" ed il
"San Francesco in preghiera".
In fondo alla Sala, la "Vendemmia all'isola di
Ischia", che per la commissione ufficiale si rifà al
vedutismo auli-co settecentesco di Philipp Hackert.
In una vetrinetta è stata collocata di recente una coppia di
vasi dell'arredo privato tratti dai depositi; appartennero
probabilmente alla Regina Maria Teresa intorno al 1840, sono di
cristallo di Boemia dipinto di rosa, di taglio neogotico.
Sala XXII
La Sala XXII, denominata Salone d'Ercole,
conserva tracce dell'antica funzione istituzionale di Sala dei
Viceré nell'ampiezza e monumentalità architettonica.
Nel Seicento era ornata dai ritratti di tutti i Viceré, dipinti
dallo Stanzione e da Paolo De Matteis. E' denominata Salone
d'Ercole perché negli anni '20 dell'Ottocento, fu allestita con
calchi delle sculture del museo Farnesiano, tra le quali
l'Ercole Farnese.
L'attuale allestimento, con gli arazzi della serie di
"Amore e Psiche" della Reale Fabbrica di Napoli,
risale alla metà del secolo scorso quando prevalse la funzione
settecentesca di salone da ballo.
Gli arazzi furono tessuti da Pietro Duranti sui cartoni di
Fedele e Alessandro Fischetti, tra il 1783 e il 1789. La
qualità stilistica dei cartoni, come la scelta quasi
monocromatica, è in bilico tra il tardo rocaille e il primo
neoclassicismo.
L'arazzo di "Psiche che illumina Cupido
addormentato", di grande delicatezza disegnativa, sconfina
nella dimensione protoromantica. Si alternano alla serie di
Psiche quinte con i "Filosofi" Licurgo, Solone,
Ermete, Numa Pompilio, del ciclo dell'"Apoteosi
Regia", tessuta su disegni del neoclassico Desiderio de
Angelis.
L'arredo della Sala, con consoles dalle gambe binate e fregi
dorati, è opera di artigiani napoletani del tempo di Gioacchino
Murat. Su basi e consoles, grandi vasi francesi, dipinti a
Napoli da Raffaele Giovine negli anni '40 dell'Ottocento,
quando, per la crisi della fabbrica, nacque l'artigianato della
decorazione della porcellana francese importata bianca.
Accanto all'ingresso è collocato un grande vaso a cratere verde
cromo della manifattura imperiale di Sevres databile intorno al
1812, con raffinate vignette dipinte da Beranger da un quadro di
Gerard: "Omero tra i vasai di Samo" e applicazioni di
bronzo dorato.
Si può dire che il vaso, nella grande qualità dei particolari
e nella stessa iconografia, è monumento dell'artigianato della
Grecia Classica.
In fondo alla Sala, un orologio di bronzo dorato e patinato
firmato dal parigino Thurel, attivo nella prima metà del
Settecento. Il movimento è retto dalla figura di Atlante che
regge il globo terrestre ad indicare in modo epico, il rapporto
tempo-spazio nella cosmologia mitologica.
L'oggetto più antico esposto nella Sala è il tappeto, tessuto
nella Fabbrica della Savonnerie intorno al 1672 per la grande
Galerie del Louvre, su ideazione di Charles Le Brun.
Parte della mobilia di Luigi XIV di Francia, fu portata a Napoli
dai Murat. Di grande interesse il percorso delle retrostanze, le
sale interne che servono anche da disimpegno alla fila di stanze
sul lato del mare.
Sala XXIII
La Sala XXIII, tappezzata di lampasso
azzurro, è arredata con mobili neorococò della metà
dell'Ottocento, ed è allestita con una serie di dipinti di
Francesco Celebrano.
Le tele raffigurano le stagioni attraverso le attività della
semina, pascolo, falciatura, raccolta del grano, vendemmia.
Provengono probabilmente dal Casino Reale di Carditello, dimora
di campagna dei Borbone. Ma non soltanto per questo si spiegano
i soggetti contadini.
Siamo intorno al 1780, una data molto vicina alla rivoluzione
francese, ed è con occhio attento alla realtà ed ai gesti del
lavoro dei campi che viene ripresa questa pur immaginaria
popolazioneAl centro della stanza, una originale e rara
"macchina per leggere". E' un leggio rotante,
appartenuto alla regina Maria Carolina, firmato da Giovanni
Uldrich e datato 1792.
La base con gambe a colonnina è uno scrittoio.
Stando seduti ed azionando con una manovella un mulino a due
ruote, è possibile avvicinare otto leggii e consultare
contemporaneamente otto libri diversi.
Le parti di sostegno del mobile, di mogano e bronzi dorati,
prendono forme neoclassiche di colonne con capitelli, ma
l'ebanista si compiace di lasciare in evidenza perni e raggi
della ruota, riducendo ogni cosa all'essenziale.
Sala XXIV
La Sala XXIV, che potremmo chiamare Sala di
Don Chisciotte, è una retrostanza dal parato rosso, tutta
raccolta sotto un soffitto settecentesco con stucchi a rete.
Alle pareti, i cartoni dipinti dai pittori napoletani per fare
da modello alla tessitura di una grande serie di arazzi della
fabbrica di Napoli, tra il 1758 e il 1779. Il cartone o grande
bozzetto a olio serviva a suggerire la composizione e gli
effetti pittorici che l'arazziere riproduceva con l'intreccio
dei filati, lana e seta, su orditi di lino o di canapa.
Qui, il soggetto è l'avventura di Don
Chisciotte, tema burlesco di satira della cavalleria, già usato
dall'arazzeria francese.
Giuseppe Bonito dipinge con spirito caricaturale "Don
Chisciotte combatte contro i mulini a vento", "La
regina Micomicona chiede soccorso a Don Chisciotte",
"Don Chisciotte beve con una canna attraverso la
celata".
Giovan Battista Rossi illustra alcune scene piene di variazioni
pittoriche rocaille: "Sancio, avendo rifiutato di pagare il
conto all'osteria è proiettato in alto come una palla dagli
amici dell'oste", "Gines ruba l'asino di Sancio"
e, finalmente, "Don Chisciotte e Sancio tornano a
casa".
Al centro della Sala, una grande fioriera ad alzata di
porcellana e ottone dorato che il Municipio donò a Ferdinando
II, dopo che questi aveva concesso la Costituzione del 1848. In
alto le iniziali del Re e lo stemma giallo e rosso di Napoli,
alla base, tre vignette con le regge borboniche di Capodimonte,
Napoli e di Caserta.
Sala XXV
La Sala XXV è una vera e propria raccolta di
pittura di paesaggio a Napoli nell'Ottocento.
Committente di queste opere fu ancora una volta Ferdinando II di
Borbone, spesso per il tramite delle esposizioni annuali
dell'Accademia di Belle Arti di Napoli.La veduta neoclassica del
pittore belga Frans Vervloet conserva tutta la nitidezza ottica
della pittura fiamminga rinascimentale. A lungo attivo a Napoli,
dipinse nel 1837 questa "Veduta di Piazza San Marco a
Venezia", acquistata dal Re di Napoli.
Romantici e studiati, su effetti di luce solare o lunare, sono
la "Foresta al Tramonto" ed i "Naufraghi al
chiaro di luna" di Salvatore Fergola, che conclude così il
suo itinerario di virtuoso del paesaggismo napoletano, avviato
ai primi del secolo con maniera harckertiana.
Una serie di dipinti di Pasquale Mattei, datati agli anni Ô50
dell'Ottocento, raffigurano cronache di folclore del Regno di
Napoli: "la Fiera di San Germano in Abruzzo", "la
Festa di Santa Rosalia a Palermo" e la "Processione al
Santuario di Capurso".
All'interesse per il paesaggio e per il territorio si univa
ormai, a quell'epoca, il gusto etnografico per i culti e le
manifestazioni popolari. Dello stesso pittore, eclettico amante
di fotografia, numismatica, epigrafia e storia locale, è la
tela dell'interno della Cattedrale di Montecassino, con la
processione del Corpus Dominis, di grande interesse
documentario.
Nella "Piazza del Carmine", di Giovanni Serritelli,
del 1859, vere architetture fanno da sfondo al teatro quotidiano
della vita popolare. In "Pozzuoli" la matrice è
ancora il vedutismo razionalistico.
La Sala faceva parte, nel Settecento, degli ambienti privati di
Maria Amalia di Sassonia, moglie di Carlo di Borbone. Infatti in
due salette adiacenti sono stati scoperti, di recente, due
affreschi di Domenico Antonio Vaccaro che decoravano i passetti
ai lati dell'alcova della regina, con funzioni di cappella
privata, documentati, ma persi dietro le controsoffittature
messe nell'Ottocento.
Sala XXVI-XXVII-XXXIV
Nella Sala XXVI, l'Allegoria dell'Unione
Matrimoniale che raffigura, nel raffinato rococò dell'artista,
la donazione del cuore tra gli sposi, incatenati da maglie
d'oro.
Nella XXXIV l'Allegoria della Maestà Regia, retta dalla Pace,
il Dominio e la Fortuna, tra i simboli dell'autorità nel mondo,
più vicina ai modi del maestro del Vaccaro, Francesco Solimena.
Nelle tre salette si conservano arredi dell'Ottocento. In
particolare due vasi in ceramica della fabbrica Giustiniani ed
un'importante scrivania neoclassica appartenuta a Maria
Isabella, moglie di Francesco I, con piani di marmi mischi e
granito del Vesuvio. Tra i dipinti di genere letterario e di
costume, l'"Inferno dantesco", di Tommaso de Vivo;
"Erminia tra i pastori", di Gioacchino Toma e la
romantica immagine della "Casa del Tasso", con il
poeta ritratto al chiaro di luna, a Sorrento.
I due pescatorelli di Orest Kiprenski, pittore russo attivo a
Napoli nella prima metà dell'Ottocento, sembrano voler
rimandare oltre la scena di genere, ad un'ideale armonia tra
popoli diversi, rappresentati dalle fisionomie bionda e bruna
dei due ragazzi.
Sala XXIX
La Sala delle Guardie del Corpo, XXIX nel
percorso di visita, è contigua alla Sala del Trono e allo
Studio del Re. Essa è arredata con arazzi della fabbrica
napoletana: l'Aria, la Terra e l'Acqua, i primi panni tessuti
entro il 1746, dopo che arazzieri e macchinari dell'arazzeria
Granducale di Firenze, ormai chiusa, furono trasferiti a Napoli
per fondare la Reale Fabbrica Borbonica. Gusto e modelli
disegnativi degli arazzi sono perciò ispirati al rococò
fiorentino, mentre i bordi, ornati di nature morte, risentono
della tradizione decorativa manieristica.
Dalla Stanza del Belvedere proviene invece
"l'Innocenza", tessuta da Pietro Duranti su cartone
del Bonito, con il coordinamento del Fuga per la camera di
Ferdinando IV, nel 1766.
L'arazzo fa ora da sfondo ad un impressionante ritratto della
moglie di Ferdinando, Maria Carolina d'Austria.
E' una scultura in cera e vetro di singolare iperrealismo, che
si spiega con la cultura nordica dell'autore, l'austriaco Joseph
Muller. Tra i mobili della Sala, in stile Impero dei primi due
decenni dell'Ottocento, segnaliamo gli sgabelli con gambe a
spade incrociate, versione napoletana di un prototipo ideato
dall'ebanista francese Jacob e corrispondenti al gusto
militaresco introdotto a corte dal Regno Murattiano.
Alla gerarchia nobiliare, Napoleone aveva infatti sostituito
quella delle armi, con risvolti anche nell'etichetta e
nell'arredamento.
Sulle consoles sono esposte significative suppellettili di stile
Impero: l'Orologio con la musa Urania, del francese Bailly, e
quattro statuette di Marte e Minerva accanto a fasci littori, di
un bronzista francese dei primi dell'Ottocento.
Cappella
Una porta di legno intagliato, del
Cinquecento, che si trovava un tempo nella Cappella di Palazzo
Vecchio, apre la Cappella Reale, che il progetto di Domenico
Fontana volle sullo stesso piano dell'Appartamento nobile,
collegata alle stanze.
Entriamo nel luogo delle cerimonie religiose a corte, il luogo
dei battesimi, delle nozze e dei funerali dei re, servito da un
clero particolare e, con i Maestri di Cappella, centro della
vita musicale a Napoli nel Seicento e Settecento.
La Cappella fu costruita negli anni '40 del Seicento, da
Francesco Antonio Picchiatti, e dedicata all'Assunta. Si
presenta ora ad una navata maggiore con due laterali ribassate e
decorate da stucchi. Nella zona alta sono appena visibili i
resti della decorazione a fresco degli inizi del Settecento: le
"Storie della Genesi" di Giacomo del Po.
Più in basso, una fascia di finto marmo con angeli che recano
palme e rami di ulivo, di Giuseppe Cammarano, dipinti insieme
all'abside cassettonato, in stile neobizantino tra il 1808 e il
1815.
Lesene verticali e finto marmo giallo della navata centrale,
risalgono al restauro del dopoguerra, quando la Cappella,
bombardata, fu riallestita sulla base del dipinto del Dominici
che abbiamo visto nella Sala III.
Dal crollo del soffitto, il 14 Agosto 1943, si salvò la tela
centrale di grandi dimensioni, che era stata rimossa:
l'"Assunta" di Domenico Morelli, dipinta nel 1869,
ispirata al genere del verismo storico, che rappresenta
l'episodio sacro con intento di ricostruzione storica.
Molti pittori delle navatelle laterali illustrano allo stesso
modo le storie di Cristo e di Maria, come scene che si svolgono
in Palestina, tra paesaggi rupestri e costumi esotici: Biagio
Molinari, nei "Profeti" e nel "San Giovanni che
predica nel deserto"; oppure "Cristo nell'orto"
ricco di drammatici effetti di luce, del Maldarelli,
nell'oratorio di destra; in particolare, in quello di sinistra,
"Le Marie al sepolcro", di Francesco Sagliano.
Stucchi tardo-neoclassici di Ignazio Perricci riempiono di
bianco e oro le navatelle.
Sull'altare di sinistra, la composta "Immacolata" di
Tito Angelini. In controfacciata, si conserva l'olio di Saverio
Saltelli de "La Madonna orante".
Ma il fulcro della Cappella Reale è il suo prezioso altare
barocco, dell'architetto Dionisio Lazzari, realizzato nel 1674
per la Chiesa di S. Teresa agli Studi, arricchito delle porte
laterali nel 1691.
Su una montatura di rame dorato, ornata da Cherubini di
modellato naturalistico e statue di Santi e di Virtù, si
innestano con incredibile fasto pietre dure: agate,
lapislazzuli, onice, diaspri ed ametiste.
Una preziosa impiallacciatura, ricca di valore intrinseco e di
colorati fulgori.
La tradizione fiorentina del commesso marmoreo, da cui prendeva
il via la bottega dei Lazzari, è completamente stravolta e
rinnovata dal gusto barocco napoletano.
Non più usata per le cerimonie di culto dal 1943, la Cappella
è stata trasformata in museo della propria suppellettile sacra.
Di tutti gli oggetti conservati in sagrestia sono stati scelti
gli esemplari più significativi, ed esposti in vetrine di
plexiglas e ardesia. L'originale forma a piramide, con
l'inclinazione delle superfici, consente l'osservazione degli
oggetti esposti, senza inconvenienti generati da luci riflesse.
Avanzando verso l'altare, nel settore di sinistra, troviamo
piccole sculture sacre. Il "Cristo risorto", in bronzo
dorato, attribuito al Vinaccia, proviene da un altare smembrato.
Da solo, suggerisce una dimensione spaziale barocca e la
presenza plastica immediata e guizzante, propria della scultura
napoletana della seconda metà del Seicento, che tiene conto
degli esiti del barocco romano.
"San Michele che abbatte i demoni"
è un grande amuleto di alabastro, salvifico contro la peste, di
un ignoto artigiano trapanese. Forse, la stessa mano, artefice
di lavori di avorio e di coralli conservati nel Museo di San
Martino.
Il Cristo in avorio, proveniente dall'oratorio privato della
regina Maria Isabella, rientra invece nella tradizione nordica,
neo-manieristica del Crocefisso, forse boemo, della prima metà
del Seicento, è uno degli oggetti tipici della pietà, delle
corti italiane ed europee. Arredi sacri del Settecento sono
disposti nelle vetrine a destra dell'ingresso: da un altare
dell'oratorio privato di Francesco I provengono due bassorilievi
di bronzo ed agata con i santi borbonici Ferdinando di Castiglia
e Francesco di Paola.
E' un lavoro di Francesco Righetti, di gusto neoclassico
temperato, di Luigi XVI.
Fra i tessuti, una pianeta in pekin bianco e rosa broccato a
mazzetti di fiori, con le iniziali ricamate del donatore:
Ferdinando Borbone.
Nello stesso settore, gli argenti sacri di Lorenzo Cavaliere,
Argentiere di Corte di Carlo di Borbone, del quale è rarissima
la suppellettile prodotta per la corte, a causa delle fusioni
dell'argento imposte nel 1798 per sostenere le spese di guerra.
Nelle vetrine più vicine all'altare, gli arredi sacri
dell'Ottocento, anforette, camici di lino con merletti, tessuti
acquistati in Spagna nel 1826 e, infine, le reliquie, tra le
quali molti medaglioni in porcellana miniata o filigrana;
proiezioni della religiosità di corte e documento di arti
decorative ormai in disuso. Tutto il materiale esposto in
Cappella ha questo doppio valore documentario.
Con lo spaccato di uno dei momenti della vita interiore dei
Borboni si conclude la visita alla Reggia, dove in massima parte
è maturata la storia di Napoli degli ultimi quattro secoli, e
dove restano vive le testimonianze di vicende e civiltà che
hanno contribuito alla formazione di un impareggiabile
patrimonio non solo artistico, ma anche di cultura, intelligenza
e tradizioni, che rappresenta la parte più immediata e vera,
dei valori di Napoli.
(testi di Annalisa Porzio) I cortili e i giardini si possono visitare liberamente. |